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19.10.2010 - WHY NOT, TANTO RUMORE PER NULLA (Italia Oggi) |
Nelle motivazioni della sentenza il magro bilancio: 150 indagati, 34 a processo, di cui 26 assolti
Solo per consulenze l'inchiesta è costata 9 milioni di soldi pubblici |
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Quattro milioni e mezzo di euro di soldi pubblici buttati via...». L'avvocato Francesco Gambardella, uno dei difensori di Antonio Saladino, principale imputato dell'inchiesta Why Not, parla in aula a difesa del suo cliente e cita, a spanne, i costi di consulenze esterne comportati dall'iniziativa di Luigi de Magistris, l'ex pm d'assalto oggi eurodeputato con l'Italia dei Valori. E il giudice per l'udienza preliminare (Gup), la signora Abigail Mellace, volteggia la mano per aria e dice: «Magari, sono stati molti di più!».A spanne, oggi la cifra di queste consulenze viene calcolata in oltre 9 milioni di euro. Il loro frutto, come si evidenza anche dalle 944 pagine di motivazioni della sentenza emessa con rito abbreviato il 2 marzo scorzo che sono state depositate ieri nella cancelleria del tribunale di Catanzaro, è magrissimo: dei centocinquanta indagati dell'inchiesta Why not, un terzo non è neanche arrivato a processo; degli altri 34 ne sono stati assolti 26, compreso l'ex ministro Guardasigilli Clemente Mastella, il cui coinvolgimento fu l'ennesima goccia nel vaso già colmo del governo Prodi, che su quest'inciampo dovette dimettersi, aprendo la strada alle elezioni poi vinte dal Pdl. E ora è quasi tutto da rifare: non con lo spirito di perseguire il male assoluto nella politica italiana e, possibilmente, mondiale, ma con quello, più umile e corretto, di capire se qualcuno ha davvero rubato, quanto e a chi. Per questo, gli atti torneranno alla procura generale di Catanzaro, che potrà farne una revisione radicale arrivando anche a costruire undprocesso del tutto nuovo.Le motivazioni della sentenza redatte dalla Mellace sono lucide e taglienti nel ricostruire la deformazione mediatica data fin da subito all'inchiesta, e si risolvono in una sorta di requisitoria contro chi la condusse, appunto De Magistris, e anche contro il teste-chiave dalle cui dichiarazioni tutto nacque, tale Caterina Merante, collaboratrice di Saladino, assurta rango di bocca della verità, nella fase iniziale dell'istruttoria, a causa dell' «incredibile rapporto personale e confidenziale» creatosi col maresciallo dei carabinieri Giuseppe Chiaravalloti incaricato di seguire le indagini, rapporto che «ha inciso pesantemente sulla modalità di conduzione delle prime indagini, inquinando in modo irreversibile la genuinità di importanti risultanze investigative, rendendole radicalmente inutilizzabili». Ora a essere nei guai è proprio la Merante che era, scrive la Mellace, il «vero dominus» delle indagini del sottufficiale il quale «operava attenendosi in primo luogo agli ordini della testimone e cercando, a tutti i costi, di trovare elementi di conferma della credibilità del suo narrato».E Saladino? L'imputato numero uno (teoricamente al centro di una sorta di «Spectre» politico-clientelare, che secondo l'accusa smistava, posti, affari e voti a metà platea istituzionale italiana) è stato, sì, condannato ma a 24 mesi (con pena sospesa e non menzione nel casellario giudiziario) per un reato concettualmente molto lambiccato, «concorso in abuso d'ufficio». Naturalmente farà appello, sostenendo la propria totale estraneità anche a quest'unico reato per il quale è stato condannato, ma chi seguì le cronache dell'istruttoria può ricavare già dall'entità della pena l'inconsistenza dell'accusa.Scrive il Gup Mellace che l'inchiesta Why Not (dal nome della società di Saladino inizialmente al centro delle indagini) «ha avuto un enorme risalto mediatico», che ha determinato «una distorta e infedele rappresentazione dall'esterno delle reali e obiettive risultanze delle fonti di prova». Il clamore mediatico, biasima il Gup, ha distolto l'attenzione collettiva «dal vero e semplice obiettivo dell'inchiesta, accertare le responsabilità degli imputati», mentre l'inchiesta veniva «da tutti osannata e salutata come la prima condanna di un sistema politico che mirava alla realizzazione di personali interessi: accertare l'illeicità o meno della destinazione di ingenti risorse erogate dalla regione Calabria e individuare tutti i soggetti che in concreto si erano appropriati indebitamente di tali risorse».
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