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30.08.2007 - Dipartimento di Bioetica Popolari Udeur
Documento sulle Dichiarazioni Anticipate di Volontà.
 

La questione della correttezza morale della somministrazione della morte è un tema controverso fin dagli albori della medicina.
Nel Giuramento di Ippocrate (420 a.C. circa) si legge: Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo.
Nel Vangelo cristiano, volendolo rileggere alla luce della moderna scienza medica, si può interpretare uno dei più famosi passi di esso, la Passione, come una forma di eutanasia per mettere fine alla sofferenza di Gesù Cristo che però rifiutò tale pratica.

In tale ottica Matteo descriverebbe un tentativo di avvelenare Gesù, sul Golgota, col vino mischiato a fiele (anticamente si riteneva che il veleno del serpente fosse contenuto nel suo fiele) per alleviare il Suo dolore, ma lui tuttavia rifiutò di berne a testimonianza della contrarietà cristiana alla morte indotta sia in modo attivo che passivo. L'eutanasia rispetto al significato proprio del termine è volontaria, ossia esplicitamente richiesta e autorizzata dalla persona malata; rispetto alle modalità di attuazione si parla di eutanasia attiva qualora la morte sia provocata in maniera diretta, ad esempio con la somministrazione di sostanze tossiche, ed eutanasia passiva qualora la morte sopraggiunga in via indiretta, generalmente a seguito della sospensione delle cure indispensabili a tenere in vita il malato; nel caso in cui non vi sia intervento diretto di terzi si parla di suicidio assistito, forma di eutanasia che può essere definita indiretta in quanto consiste nel fornire alla persona richiedente i mezzi e le competenze necessarie a terminare la propria vita nel modo più indolore possibile.
Dal punto di vista giuridico, morale e religioso vi è chi tende a considerare l'eutanasia attiva una fattispecie assimilabile all'omicidio; riguardo all'eutanasia passiva vi è chi pone in evidenza la sostanziale diversità, nel modo " naturale" con cui avviene la morte rispetto all'eutanasia attiva. Per completezza bisogna aggiungere che molti non considerano eutanasia quella passiva, consistendo tale pratica solo nell' astensione a praticare terapie nel pieno diritto da parte del malato di rifiutarle.

Per quanto riguarda le posizioni politiche rispetto al tema in questione si possono individuare in seno al Parlamento tre aree, trasversali agli schieramenti politici, aventi tre posizioni differenti sull' argomento eutanasia:

  • un'area cattolica (udeur-margherita) che va dai cattolici del centro-destra ai cattolici del centro sinistra i quali affrontano la questione dell' eutanasia secondo principi cattolici sui quali si fondano gli stessi partiti arrivando ad assumere una posizione fermamente contraria riguardo al problema;

  • un'area possibilista, costituita in gran parte dai DS, la quale si trova nell'esigenza di dare risposte alla base laica del suo elettorato e al contempo convivere nella coalizione di governo con gli altri partiti;

  • un'area laica, che va dalla sinistra radicale alla rosa nel pugno che caldeggia un dibattito su questo tema chiedendo l'allineamento dell'Italia alle legislazioni europee più favorevoli all'eutanasia come, per esempio, nei Paesi Bassi.

Di fatto si è alla difficile e complessa ricerca di una disciplina normativa capace di orientare senza ambiguità sia chi applica la legge, sia chi ad essa si rivolge nelle questioni che si trovano nel labile confine che separa lo spazio della libertà individuale da quello della responsabilità professionale e dei principi etico-religiosi. Il problema fondamentale è costituito dalla rilevanza e dal limite che si devono riconoscere alla volontà del malato e al ruolo di chi professionalmente se ne prende cura.

Si tratta, in altri termini, di valutare il limite della libertà di autodeterminazione del paziente e di riconoscere nel contempo l'innegabile spazio di autonomia che attiene all'attività medico-sanitaria.
In Italia, tornando all'aspetto giuridico, nell'attuale ordinamento coesistono principi fondamentali "tra loro non convergenti ed anzi potenzialmente discordanti", che sanciscono da un lato la indisponibilità del valore della vita e dall'altro il diritto di ciascuno, e specificamente del paziente, ad autodeterminarsi. A sostegno del valore della vita si richiamano l'ex articolo 579 e l'articolo 580 del c.p. che puniscono l'omicidio del consenziente e l'istigazione o agevolazione "in qualsiasi modo" del suicidio.

Analogamente, l'articolo 5 del c.c. pone un chiaro limite alla volontà personale vietando atti lesivi della propria integrità fisica, mirando alla precipua salvaguardia della dimensione sociale di ogni cittadino. D'altro canto, con significato apparentemente discordante, l'articolo 32 della Costituzione riconosce che "nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge", sottolineando che la "legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". E' a tale articolo che si appellano coloro che reclamano il primato della libertà del malato di sottrarsi ai trattamenti terapeutici rivendicando l'autonomia decisionale del paziente secondo il principio " voluntas aegroti suprema lex esto".

Sulla stessa linea si colloca la posizione contenuta ed espressa nella Convenzione di Oviedo del 1997, a cui si richiamano la maggior parte dei D.D.L. che intendono definire le "direttive anticipate di volontà", alle quali si riconoscono un carattere cogente e vincolante per i sanitari. In realtà il testo della Convenzione di Oviedo non impone una simile interpretazione, ma semplicemente raccomanda ed auspica l'accoglimento della prevalente volontà del malato sul parere del medico senza, tuttavia, riconoscere ad essa un carattere prescrittivo che, in caso contrario, ridurrebbe la funzione medica ad una mera pratica esecutiva della preventiva richiesta del paziente. La questione non è, ovviamente, di natura meramente dialettica, ma presenta una inevitabile ricaduta etica che obbliga ogni individuo, e a maggior ragione chi si occupa di politica, ad un approccio meditato ed approfondito, in grado di coniugare la specificità del problema con i fondamenti universali dell'essere.

Si tratta di rispondere ad un interrogativo assai più ampio rispetto a quello che regola il rapporto medico-paziente: la vita è un bene soggettivo e personale, e pertanto consegnata alla libera volontà individuale, o, piuttosto, è un bene inalienabile e intangibile, e quindi assolutamente indisponibile? Ove si riconosca, come noi riconosciamo, il carattere sacrale dell'umana esistenza, la pur legittima e rispettabile autodeterminazione del paziente trova un limite invalicabile nell'incondizionato valore della vita in tutte le sue fasi, dalla nascita alla morte; per cui la libertà dell'individuo non può derogare dal prioritario principio di responsabilità che risponde ad un più alto valore che inscrive la temporalità dell'esistenza umana nell'arco di un tempo assoluto e teleologicamente orientato.
La libertà della persona, e sia pure della persona malata, non può prescindere, quindi, dall'accettazione delle leggi della vita, che contemplano anche la malattia, la sofferenza e la morte.

Bisogna aiutare il medico a compiere il proprio dovere, che è anche quello di alleviare il più possibile le sofferenze.
Ma se è vero che la funzione medica non si esaurisce nella mera esecuzione della volontà del paziente, avendo come primario intento quello di svolgere in scienza e coscienza un'attività terapeutica atta a garantire la tutela della vita del malato, è altrettanto vero che il suo dovere non si limita ad una pratica esclusivamente diagnostica e curativa, ma esige una capacità di instaurare una relazione rispettosa del paziente, fondata sul principio del "consenso informato".
La situazione si complica allorchè il paziente, malato terminale, avanza una richiesta di sospensione della cura, o, per sopraggiunta incapacità di intendere e di volere, ci si trovasse di fronte ad una richiesta di eutanasia precedentemente affidata ad un documento scritto. In tal caso si ripropone la situazione dilemmatica sopra richiamata.
Una legge sul testamento biologico è la questione più delicata, dal punto di vista etico, posta all'attenzione del legislatore.
Sono ben otto le proposte di legge presentate in Parlamento, di cui si vorrebbe tentare una difficile sintesi unitaria. I punti più discussi, e non potrebbe essere altrimenti a causa delle delicate implicazioni connesse, sono:

1) la possibilità di interrompere l'alimentazione forzata e l'idratazione;

2) il ruolo ed i poteri del medico e del fiduciario nominato dal paziente, e chi sia chiamato a decidere nel caso in cui vi sia conflitto fra i due;

3) l'obbligo per il medico di rispettare la volontà espressa in anticipo dal paziente e l'eventuale obiezione di coscienza;

4) a chi spetta decidere quando le cure possono prefigurare l'accanimento terapeutico.

L'argomento più ricorrente a sostegno del testamento biologico è proprio quello di evitare il cosiddetto "accanimento terapeutico". Al riguardo si tende a far confusione fra il rifiuto dell'accanimento terapeutico ed il rifiuto delle cure che non costituiscono accanimento. Già oggi non appare necessaria una legge ad hoc. Il nuovo codice di deontologia medica del 2006 prevede infatti che "il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall'ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita." (art. 16)

L'accanimento terapeutico non è rispettoso della dignità della persona e non si può persistere in terapie sproporzionate rispetto alle condizioni reali del malato, portandolo, alla fine della sua vita, ad una sopravvivenza dolorosa e gravosa. Il medico è chiamato a valutare caso per caso, in base ai dati biomedici, indipendentemente dalla semplice volontà del malato. Si giunge in tal modo ad un giudizio di adeguatezza o inadeguatezza medica delle terapie in relazione al raggiungimento di un determinato obiettivo di salute o di sostegno vitale per il malato. Questa valutazione deve tener conto anche degli aspetti soggettivi, quelli più strettamente attinenti al malato stesso. Il giudizio del medico può perciò differire a fronte della stessa condizione clinica e dello stesso trattamento, ma con malato diverso, partendo comunque dalla iniziale valutazione oggettiva. Il DDL n. 773 prevede che il soggetto possa "esprimere il proprio giudizio in merito all'attivazione dei trattamenti diagnostici e terapeutici di sostegno vitale, ovvero, qualora essi appaiano sproporzionati o ingiustificati, o comunque configurino l'accanimento diagnostico o terapeutico, alla loro sospensione".

E' difficile, tuttavia, per un cittadino esprimere un tale giudizio, che risulta complesso anche per un medico specialista.
Il giusto obiettivo di evitare ogni forma di accanimento terapeutico viene vanificato da un concetto "soggettivizzato" e "decontestualizzato". Il problema dei limiti delle terapie è molto serio, e non è accettabile che esso sia dato da una idea di "minore dignità della vita umana", come è quella che può scaturire dal lasciare il malato a se stesso, favorendo una prassi di sfiducia e di abbandono terapeutico.

La definizione dell'accanimento terapeutico non può essere fatta in termini generali perché apre a logiche eutanasiche. Ci si arrende alla morte del malato in una situazione concreta in cui continuare con le terapie è inefficace o sproporzionato rispetto agli effetti ottenibili, al cospetto della personale situazione sia sanitaria che psicologica del malato, tenendo conto della necessità di non privarlo della tranquillità e del raccoglimento nella delicata fase pre-agonica. Basarsi su una esclusiva volontà del soggetto oppure stilare un elenco di trattamenti etichettati come "accanimenti" apre la strada all'idea che a certe condizioni non valga la pena di vivere e che l'esistenza perda la sua dignità, con il rischio di una selezione tra vite degne di vivere e vite non degne di vivere.

La posizione dei Popolari-Udeur su questi importanti temi legati all'eutanasia è ferma nel respingere ogni tipo di dichiarazione che possa in qualche modo far pensare che una persona umana possa decidere di ciò che "forse" un giorno accadrà, ovvero l'insorgere di una malattia; il soggetto che ha espresso una volontà in un momento di piena salute non può immaginare cosa vorrà per se stesso nel momento in cui non potrà più esprimersi. Potrebbe essere cosciente e felice anche in uno stato vegetativo, magari partecipando passivamente alla vita familiare vedendo i suoi figli crescere e i suoi nipoti nascere.

Non c'è bisogno di leggi che ingabbiano e rendono più debole il rapporto tra il medico ed il paziente pretendendo di predeterminare una situazione in cui il dialogo consentirebbe di rispettare la volontà del malato ma anche il ruolo del medico. Se il medico viene ridotto a mero esecutore degli ordini del malato non fa più il medico e "non ha più una scienza da portare e una coscienza da esercitare", come è stato ribadito anche recentemente dalla Chiesa.

 

Il Responsabile del Dipartimento di Bioetica
Popolari - UDEUR


 


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